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È morta la regina del soul Aretha Franklin

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«Hai visto Aretha. Fuma senza un criterio. Tu pensi che se la salvaguardino [la voce] come se fosse… Beh, fanculo, ora mi sento meglio!». E si accendeva un’altra Marlboro Keith Richards in quel 1987 quando aveva appena registrato una versione ssssoul di Jumpin’ Jack Flash con Ronnie Woods all’altra chitarra ma la Franklin al posto di Mick Jagger. No, non era una che si risparmiava, lei. Mai stata una tenera. Se ne fregava; viveva, e la voce, da purissima, cristallina le si era ombrata, arrughita a forza di sigarette senza criterio. Non importa: restava Aretha, era il repertorio a modellarsi su di lei adesso. Aretha Franklin ci ha salutato il 16 agosto, e sembra troppo presto: aveva 76 anni, e una come lei in pensione non poteva andarci. Ma da 140 chili che aveva raggiunto, era rimasta la pelle nel silenzio, nell’incoscienza vegliata dalla famiglia.

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ARETHA E LA SUA ORCHESTRA DI CORDE VOCALI
Stiamo scrivendo di una vita di quelle che non possono ripetersi, perché hanno attraversato un orgoglio nero che era sociale, politico, artistico con un impatto che oggi non può più accadere. Stiamo scrivendo di una vita che parte da Memphis, Tennessee, ma comincia davvero a 14 anni col primo disco, registrato dal vivo nel 1956 alla New Bethel Baptist Church di Detroit e uscito per la Chess: Aretha Gospel è il canto di guerra e d’amore di una bimba che canta già da adulta. Troppo adulta. Lady Soul sta nascendo. Soul per dire che ci mette l’anima in ogni nota di quella estensione prodigiosa, utilizzata con un dinamismo inaudito, del tutto fuori dai canoni. Sfruttando il vibrato, soprattutto il timbro, con istintiva maestria, arriverà a dirigere una intera orchestra di corde vocali. Lei è l’orchestra, lei è il soul. Lei è la riscrittura di una musica nera che riprende la lezione della chiesa Battista del padre, il reverendo Reverendo C.L. Franklin, e le cresce in seno allevata da Mahalia Jackson, Marion Williams e Clara Ward (per un certo periodo martigna, dopo la fuga della madre naturale), e non mancano tra i mentori Art Tatum, Dinah Washington, Low Rawls soprattutto Sam Cooke, amico stretto del reverendo, che più di tutti sente, intuisce quell’orchestra che sta cresendo in petto alla “bambina”.

GLI ESORDI IN COLUMBIA, IL SUCCESSO GRAZIE A JERRY WEXLER
Trasferita a New York, la stella che sorge rischia di venire spenta sul nascere. John Hammond Sr. la porta alla Columbia, le fa firmare un contratto sei anni, le fa incidere otto o nove dischi inutili, roba sdolcinata, innocua, del tutto assurda per le potenzialità di quell’aquilotta mirabile. Finché non arriva come un angelo della provvidenza Jerry Wexler che capisce, che sancisce: questa è Anima, e le ci vuole il Soul. La porta alla Atlantic, le dà una raddrizzata stilistica, non senza problemi. La prima session ai Muscle Shoals non è facile, Aretha riesce a incidere solo due pezzi, I Never Loved A Man e Do Right Woman, poi la porteranno a Los Angeles e di nuovo a New York: ma bastano e avanzano a spalancare con la furia del destino ogni porta.
Lady Soul adesso è nata davvero, e inanella un’epopea che nessuno può immaginare con episodi quali Respect, scritto da Otis Redding pensando al rapporto di coppia ma risolto in un canto di libertà, e quindi (You Make Me Feel Like) A Natural Woman, Chain Of Fools, Since You’ve Been Gone, proseguendo con Think, Say A Little Prayer e oltre. Aretha Franklin già non è più solo una interprete, la sua voce è quella di un popolo, il soul come genere le serve a far crollare le mura di Gerico di un razzismo che ancora non vuol cedere, a rinnovare in chiave modernissima quell’esigenza di emancipazione che la comunità nera subito intercetta, incorpora nelle sue battaglie per i diritti civili. Think è, ai riguardo, esemplare al limite dell’inquietante: la Franklin lo incide per la prima volta il 15 aprile 1968, il giorno in cui cade Martin Luther King, uno di famiglia, quasi un padrino per lei.
NOVE DISCHI FANTASTICI NEL BIENNIO 1967-69

Stilisticamente, la pagina più clamorosa resta l’album del 1967 I Never Loved A Man The Way I Love You, farcito di pezzi memorabili, tutti, nessuno escluso. Tra i musicisti in studio King Curtis al sax e Jimmy Johnson alla chitarra. Soul? Crossover? Ma no, è uno di quei dischi che sfuggono alle catalogazioni, che contengono tutto, ponti tra la storia depositata e un futuro che marchiano a fuoco. Così è chi lo canta, la Signora di un’Anima sempre più piagata da quei vortici esistenziali che usualmente travolgono altre ugole uniche e dunque condannate, da Billie Holliday (di cui la Franklin sarebbe stata definita erede) a Whitney Houston ad Amy Winehouse a troppe, troppe altre. Per capire l’andazzo, basti calcolare i nove dischi nel biennio 1967-68, un ciclo mostruoso per qualità e capacità di lavoro, che va dall’esemplareI never loved… a Soul ’69. Assemblati, suonati col meglio del giro soul, cui si affiancano spesso ospiti di lusso, rockstar come Eric Clapton su Lady Soul. Ancora fino alla metà degli Anni 70 i ritmi saranno questi, roba da far tremare perfino uno stakanovista compulsivo come James Brown. Ma questo è lo stato del gioco, ed è un gioco che tritura, che distrugge.

Aretha però è forte, Aretha passa i suoi inferni ma non si schianta. Perderà smalto, a un certo punto, e dovrà ridefinire la sua formula, concedersi qualche passo commerciale. Ma torna in tutto il suo splendore in quel film, I Blues Brothers, dove, nei panni casalinghi della moglie del chitarrista Matty “Guitar” Murphy, reincarna una Think che è pura, esplosiva, orgogliosa, forza di vivere. Non gioia: forza, perché quella forza racchiude ed esplode ogni gioia, ogni soul, ogni blues, è la negritudine che fa del canto afroamericano un unicum di energia, consapevolezza, ironia, senso di appartenenza. Qualcosa di irraggiungibile, di incomparabile: e lei è seduta sopra questo Olimpo.
UNA VITA DA PREDESTINATA DEL SOUL
Sono incredibili le parabole, le misure artistiche, dunque esistenziali, di certi personaggi. Se si pensa che, quando nel 1980 Aretha Franklin torna in auge, col citato cult movie di John Belushi e Dan Aykroyd, ha già sperimentato 24 anni di show business, 13 dei quali di successo stellare; ha addosso 38 primavere, anche se sembrano 10 volte tanto in termini di attività. Eppure è in un certo senso ancora nella prima fase di una carriera che sarebbe continuata per altri 38 anni. E poteva andare avanti ancora, non fosse stato per la malattia, recidiva di un primo attacco di otto anni fa, che ha spezzato una pazzesca serie di 21 Grammy. L’ultimo tour è di un anno fa. Ha cantato oltre le sue possibilità, ha continuato anche quando di quel corpo sinuoso prima, matronale, matriarcale poi, non era rimasto altro che una voce. Aretha ha sempre saputo di essere una predestinata e questo non significa tanto il lusso, l’adorazione globale, le limousines, i grandi alberghi, i picchetti d’onore quando si entra al ristorante. Neppure la rivalsa di una cantante nera diventata di tutti i colori. Vuol dire che il Dio del Soul ti butta addosso una croce pesante come un popolo e tu devi cantarla, e cantare, e cantare fino a che niente resta di te, fino a quando il canto non affoga nel vento.

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